"Consiglierebbe la carriera di scrittore?" mi chiese uno degli studenti.
"Stai cercando di dire amenità?" gli chiesi.
"No, no parlo seriamente. Consiglierebbe la carriera di scrittore?"
"È lo scrivere che sceglie te e non tu lo scrivere."

Charles Bukowski

sabato 19 marzo 2011

Simulacro



«Un simulacro designa un'apparenza che 
non rinvia ad alcuna realtà sotto-giacente,
 e pretende di valere per quella stessa realtà.»
Wikipedia

La mia foto di laurea, incorniciata sulla libreria, è coperta da una fine coltre di polvere che ne sbianca i colori. Il viso di mio padre è allo stesso tempo allegro e timidamente fiero. Mia madre invece sembra più confusa di me. Non so esattamente di cosa. Se dell’ansia di quel giorno, o del fatto che in un battibaleno, quella cosa minuscola che si attaccava vorace al suo seno, ora era davanti ad una commissione d’esame, coperto con una tunica nera, a parlare di Poetica dannunziana ed esperienza fiumana, nel suo rapporto con il fascismo. Esattamente non capiva di cosa trattasse, ma sentire la sua creatura esprimersi con paroloni sconosciuti, accompagnati da cenni di approvazione dei professori, la riempiva di orgoglio. Orgoglio, una parola che imparai da mio padre al mio quinto compleanno. Mi disse testualmente: – Cinque anni! Stai diventando un ometto, sono davvero orgoglioso di te! – io lo guardai incuriosito – Che sinnifica oggolioso? - Mio padre mi prese per le braccia, mi mise in piedi sulle sue ginocchia e con un sorriso stampato in volto rispose – Orgoglioso. Deriva da orgoglio, vuol dire che papà è fiero di te, crede in te ed ha fiducia in te! – non capì esattamente cosa intendesse, né tantomeno perché fosse orgoglioso, ma da quel giorno la parola restò impressa nella mia mente. Orgoglio. A 23 anni l’ho tatuato sulla spalla, sotto un’aquila che sorregge il tricolore. Quando esco da palestra, mi piace guardarmelo fiero allo specchio. Negli spogliatoi ci sono sei lavandini, tre da un lato e gli altri tre di fronte, io mi posiziono di spalle a quello centrale, volto il capo verso le specchio e l’ammiro. Mentre lo faccio, quasi per una reazione involontaria, i pettorali si ingrossano, i bicipiti iniziano a pulsare sangue, gli addominali si induriscono turgidi. Poi mi volto verso lo specchio frontale e mi ammiro, in un’espressione fiera. Adoro i colori del tricolore, e credo che sia necessario che ogni cittadino italiano, si impegni per il bene della propria nazione. Mi spaventa vedere come invece ci sia una sorta di diffusa indifferenza verso il proprio paese, verso le proprie origini. Ognuno lo usa per i propri porci comodi, dal Presidente del Consiglio, fino all’ultimo degli spazzini. Ognuno percepisce lo spazio pubblico come una terra di nessuno da depredare, o da usare come discarica. La patria di molti italiani, finisce dentro le mura domestiche. È questo il motivo per cui abbiamo un paese allo sbando. È per questo che lotto, giorno e notte per il mio paese, per la mia patria, affinché essa torni finalmente fiera e dignitosa. Era il 1990, lo ricordo ancora con gli occhi lucidi. Avevo 6 anni, e in Italia c’erano i mondiali. Se uno psicologo dovesse interrogarmi, su quale sinapsi crea in me la parola Italia o tricolore, credo che direi senza esitazione “Notti magiche”. Ancora oggi quando mi capita di sentirla, mi viene la pelle d’oca. Credo che quel momento catartico, abbia infuso in me il grande amore per il mio paese. Amo l’Italia. Ed anche se hanno mille difetti, amo gli Italiani. Amo le piazze dei tanti paesi italiani, amo la cucina italiana, amo lo spirito fraterno degli italiani, amo la cultura italiana, quella che ci ha reso grandi nei secoli. Amo le nostre radici. Il risorgimento è sempre stato un argomento tralasciato a scuola. Sia alle scuole medie che alle superiori, veniva trattato di sfuggita. Ma a me ha sempre entusiasmato, sapere come s’è creata la nostra nazione. Come siamo diventati italiani. Oggi ero con gli altri a volantinare in piazza. Contro l’entrata della Turchia in Europa. Ad un certo punto si avvicina un ragazzo biondino, sembrava un rumeno, albanese, o qualcosa del genere. Ha chiesto il volantino, noi l’abbiamo guardato sospettoso, ma glie l’abbiamo dato lo stesso. Il ragazzo ci impiega un po’ a leggere e poi ci dice – Bravi! Non fate entrare Turchia! – e mentre agita in aria il foglio grida – Turchia fanculo! – Noi ci guardiamo incuriositi, mi avvicino minaccioso a lui – Tu non sei italiano – lui muovendo la testa da destra a sinistra prova a rispondere – No, ma io … - non lo faccio parlare – e allora che cazzo te ne freca della Turchia in Europa? Perché non te ne vai via pure tu al tuo paese? – il ragazzo indietreggia e cerca di spiegarsi – no, mio paese Turchia, io non posso tornare. Io curdo. Loro uccide me. Uccide tutti curdi. - e ripete – Turchia fanculo! – Ci guardiamo con aria dubitativa. Che fare? Come ci comportiamo con questo stronzo? I confini della nazione, sono i confini della nazione, e questo è un corpo estraneo fuggito dalla sua di nazione. L’ordine naturale delle cose vorrebbe che rimanesse nel suo organismo nazionale. Ma il punto è: qual è la sua nazione? Dovrebbe essere il Kurdistan, certo, ma di fatto non esiste. La loro lingua, la loro cultura, le loro tradizioni sono curde, ma restano oppresse sotto il dominio di altri stati, fra cui quei merdosi kebabbari dei turchi. Come considerarlo quindi? È un esule, un patriota curdo. Ma se è patriota allora, perché non se ne rimane al suo paese, a combattere il dominatore straniero, invece di venire a rubare il lavoro ai cittadini italiani, agli originari figli di questo paese? Non sapevamo come uscire da quel paradosso. Siamo rimasti muti, mentre il curdo se ne andava. Non ci abbiamo più pensato, ma mentre tornavo a casa, questo dilemma ha continuato ad assalirmi nella testa. Senza che riuscissi a trovare risposta. Sono andato in Chiesa. Papà quand’ero piccolo me lo diceva sempre – Quando sei confuso e vuoi delle risposte, vai in Chiesa – mi sono inginocchiato ed ho iniziato a pregare. Dopo essere rimasto per un po’ in quella posizione, ho alzato lo sguardo al crocifisso. Sin da bambino ho sempre avuto una sorta di paurosa riverenza verso Cristo, tanto da non guardarlo mai negli occhi – Non si può guardare in volto Dio – mi dicevo. Oggi, non so cosa, ha rotto in me questa timorosa riverenza. Ho guardato fisso Gesù nei suoi occhi, rivolti al cielo, in attesa di una risposta del Padre. Ed una domanda iniziava a salirmi dentro. Più la ricacciavo, nel profondo oblio da cui era nata e più quella tornava a galla. Alla fine la mia testa, non ha potuto far a meno di porsela chiara. - Cristo, qual è la tua patria, quali sono le tue radici, qual è la tua razza? – la mia razionalità cattolica e scoppiata in un leggero sorriso – Che domande, Cristo è il figlio di Dio, Cristo non ha razze, non ha patria, non ha radici, Cristo è in ogni luogo – Ecco mi aveva parlato. Le sue parole mi sono finalmente apparse chiare. Mi sono sentito un po’ in colpa per come avevo trattato quel curdo. Cristo mi diceva chiaramente che non ha importanza la tua razza, o la tua patria, l’importante è difendere il bene, la civiltà, Dio, Cristo e la cristianità ovunque, tutto il resto è secondario. Mi sono sentito sollevato. Le mani mi hanno aiutato ad alzarmi dall’inginocchiatoio, mi sono diretto verso l’uscita, voltandomi verso l’altare, ho abbassato il capo e fatto il segno della croce. Poi sono uscito. Mentre mi osservavo le scarpe ho pensato: - Ma poi i curdi, di che religione saranno?

Bookmark and Share

Nessun commento:

Posta un commento