Il cemento freddo e l’aria umida di agosto, copre il suono dell’autoradio. London Calling spiega agli assonnati residenti della periferia, le politiche imperialiste del governo Thacher. Ho in mano il mio proiettile porta fortuna, lo passo fra le dita, coprendolo di impronte. Controluce restituisce tutta la sua dorata opacità. Mi piace accarezzarlo, passarmelo sulle guance. Mi da la sensazione di domarne la violenza. Come accarezzare un cane da guardia, o un leone da circo. Uno di quegli animali che di punto in bianco può saltarti alle spalle e divorarti. Mi sembra quasi di camminarci sopra. Sotto il naso respiro il suo profumo metallico, e quel retrogusto amaro di polvere da sparo. Alzo gli occhi verso lo specchietto retrovisore. Il campetto da calcio, vuoto. Una busta, spinta dal vento, cerca compagni di gioco. Nella palazzina adiacente il campo, un cane abbaia verso la finestra. I suoi padroni l’hanno lasciato fuori, per potersi concedere la regolare scopata settimanale. Torno con gli occhi nell’auto. Se non ricordo male devo aver lasciato una cannetta nel posacenere. Eccola lì infatti. La prima boccata non serve. È solo un incensare l’ambiente. Un coprirlo di atmosfera. Un fumo da concerto. Crea quelle nuvole in chiaro scuro e basta. La lingua mi si ingrossa in gola. Sento il sapore rotondo riempirmi la bocca. Guardo l’orologio. Quanto cazzo ci mette? Torno allo specchietto retrovisore. Sta volta la busta non c’è più. Si sarà arresa al vuoto del primo pomeriggio. Anche il cane ha smesso di abbaiare. Ora scodinzola eccitato davanti alla finestra. I padroni hanno finito. Questa volta più veloci del solito. Un uomo: canottiera, boxer e sandali di legno, accarezza l’animale con la mano libera dalla sigaretta. Sembra una sorta di confidenza maschile. – È fatta, l’ho trapanata! – il cane, pare quasi interessarsi per un attimo alla prestazione, ma poi fugge subito verso il divano. L’ultimo tiro. Tutto d’un fiato. Trattengo nei polmoni a lungo e schiaccio il filtro nel posacenere. Butto fuori tutto. Un sospiro sulla vita. Afferro ciò che resta della canna fra il pollice e l’indice e la schiocco via verso il campetto. Torno all’orologio. Ancora niente. Guardo la striscia di cielo che riesco a scorgere dall’auto. Delle rondini si muovono a V in cerca di chissà cosa. Mi ricordano quel tizio che ho visto ieri in TV. Un americano, che si lanciava da vette altissime con un deltaplano, seguendo i percorsi delle aquile. Ricordo di aver pensato: – chissà cosa provi quando sei lassù? Volare. Ed osservare tutta la fogna che scorre in basso – Mi vedo sopra la mia auto, sopra il campo da calcio, sopra il cane e il suo padrone svuotato, sopra la palazzina, sopra l’isolato, sopra quella città perduta, sopra l’intero mondo che affoga. Mi allontano sempre più, non sento più niente. Neanche un rumore. Solo il mio respiro, e il battito cardiaco. Ma con un’eco infernale. Un’eco che mi assorda. I timpani mi scoppiano. Torno allo specchietto. Ancora nessuno. Alla radio parlano di una catastrofe. Gli esperti tranquillizzano. Balbettano qualcosa. Io, riprendo il mio proiettile fra le mani. È caldo questa volta. Sembra quasi che abbia assorbito il mio odore. Lo afferro per la base. Lo porto all’altezza degli occhi e poi più su, fra le sopraciglia e i capelli. Appoggio la sua punta alla pelle. Guardo dallo specchietto. Nessuno.
Nessun commento:
Posta un commento