"Consiglierebbe la carriera di scrittore?" mi chiese uno degli studenti.
"Stai cercando di dire amenità?" gli chiesi.
"No, no parlo seriamente. Consiglierebbe la carriera di scrittore?"
"È lo scrivere che sceglie te e non tu lo scrivere."

Charles Bukowski

lunedì 19 luglio 2010

Il mio secondo viaggio


Di notte mi capita spesso di sognarlo. Anche questa notte, mi sono svegliato di soprassalto. Il mio respiro forte e palpitante. Per un attimo mi chiedo dove sono, un attimo che dura una vita. Un viaggio. Mi guardo intorno e vedo betoniere arrugginite, materassi sudici per terra e tanti schiavi come me a dormire insieme ai topi. Anche questa notte ho sognato mio padre, avevo 10 anni quando mi portò per la prima volta in Egitto. Papà era un importante medico di Asmara in Eritrea e ricordo quel periodo come il più bello ed il più spensierato della mia vita. Lo ricordo come un sogno strappatomi con la forza, come una fiaba mai realmente accaduta. Ricordo quel primo viaggio, indimenticabile. Papà mi faceva giocare con la sua macchina fotografica ed io immortalavo tutto, gli splendidi riflessi del Mar Rosso, le maestose piramidi, i bazar coloratissimi. Ricordo il volto sorridente di mio padre e i suoi occhi che baciavano i miei. Ricordo anche la prima volta che vidi un deserto, in cui scoprì quel mistero della terra che suggeriva l’infinito. La prima volta mi abbracciò. La seconda mi tradì. Il sogno cambia direzione, cambia viaggio. L’altro, il viaggio. Lo scoprì una mattina di 5 anni fa, tornavo dall’Università ed appena varcata la porta trovai l’intera casa sottosopra. Salii correndo le scale e con il cuore in gola. Al piano di sopra trovai l’orrenda scoperta. Mia sorella Saba violentata ed uccisa. Mio padre lo portarono via. Furono i soldati mandati dal governo. Fu solo per caso che quel giorno avevo un colloquio con un professore in Università che mi salvò la vita. Non ebbi scelta. La notte scappai, presi il mio zaino lo riempii alla meglio e mi diressi verso il confine. Ecco il mio secondo viaggio. Alla frontiera mi dissero di chiedere ad alcuni ragazzi libici, loro mi avrebbero dato un passaggio attraverso il deserto del Sudan sino in Libia. Pagai quei ragazzi quasi tutti i risparmi che ero riuscito a prendere da casa. Aspettai 3 giorni nascosto in un deposito insieme ad altre 40 persone. Il terzo giorno ci chiamarono dissero di muoverci, ci caricarono su 2 furgoni, in 40 e stretti come sardine iniziò la traversata del deserto. Anche quella volta di notte. Fu mentre guardavo in lacrime il confine eritreo allontanarsi che notai questo perverso rapporto fra il viaggio e la notte, o meglio, tra la fuga e la notte. Due compagne silenziose e disumane che d’un tratto strappavano i tuoi ricordi, come un album fotografico in frantumi. Era la nebbia che cancellava tutto ciò che eri stato, che cancellava papà e l’Egitto, e le foto sul Mar Rosso. Era il viaggio che si ripresentava col suo volto violento. La traversata durò 10 giorni. 10 giorni stretti all’inverosimile su quel furgone, nel deserto. Una puzza indescrivibile, gente che si lasciava cadere nel deserto, abbandonata ad una atroce morte, gente che si vomitava addosso, l’acqua che diminuiva ogni giorno. Un inferno. La mia seconda volta col deserto. Terribile e violento come un leone non più domato fra le gabbie dello zoo. Un Leone che mostra il so vero volto. La morte. Arrivammo in Libia stremati. Arrivati lì molti di noi si dissero è fatta. Ci lasciarono al confine e lì ci vendettero ad altri che ci avrebbero portati sino a Tripoli. Io non avevo i soldi per pagarli e cosi una volta giunti a Tripoli mi tennero come schiavo. Lavorai per loro 4 mesi, per pagarmi quel viaggio, come operaio di costruzioni, lavoravo come un animale 15 ore al giorno. Alla fine scappai. Iniziai a vagare per la città in cerca di qualcosa da mangiare, la prima volta mi fermò la polizia mi chiese di dov’ero io dissi libico, loro insistettero: Di dove sei merda! - Eritrea – risposi. Mi chiesero dei soldi altrimenti mi avrebbero arrestato, io feci finta di guardare nelle tasche e scappai. Ecco un’altra caratteristica del mio viaggio. Scappare sempre e da chiunque, come un gatto impaurito, appena vede esseri umani, perché per me ormai l’essere umano è un pericolo da cui scappare. Finì a vivere per strada arrangiandomi con quel che potevo, rubando qualcosa qua e la per mangiare. Alla fine un giorno un uomo mi prese per la maglia, mi disse lo so che sei straniero, dammi dei soldi o peggio per te. Io gli risposi, ma non vedi che non ho niente. Non ci fu verso di convincerlo e mi spedi presso la Polizia. Lì mi picchiarono a sangue, la mia schiena piena di frustrate e dopo un po’ mi misero in un container e mi rispedirono a sud della Libia, per la precisione a Kufrah, da allora quando immagino l’inferno ho bene in mente com’è fatto. Un giorno un ragazzo qui in Italia che aiuta gli stranieri mi ha spiegato che quel carcere è stato finanziato anche dal governo italiano. A Kufrah ho visto di nuovo il volto della morte. Peggio ho visto la morte della vita. A Kufrah non esiste più la vita, anche se non sei morto. Eravamo rinchiusi 60 persone in una cella, dormivamo per terra. Le donne erano rinchiuse in un’altra parte del carcere e ci dicevano che venivano violentate e torturate. Anch’io ma non lo ricordo più. Rimasi in quell’inferno 4 anni. 4 anni in cui smisi di vivere. In cui la mia vita non è mai esistita, in cui i giorni non sono mai passati. Grazie ad un amico eritreo conosciuto in carcere riuscimmo a pagare la polizia, e ci dettero nelle mani dei trafficanti. Ci rispedirono vicino a Tripoli in un container e lì lavorai altri 3 mesi per mettere da parte i soldi per la traversata. Arrivò il giorno ci chiamarono era notte. Ancora una. Eravamo 30 persone tutte su un gommone. Partimmo ad attraversare l’ultimo deserto. Il più corto e spietato. L’ultima cortina prima della libertà. Il Mediterraneo. Durò 3 giorni. Sembravano 3 anni. Al largo molti di noi si sentirono male, donne incinta furono buttate a mare dai traghettatori. Era l’ultima prova. Dovevi resistere o morire nel Mediterraneo. Arrivammo stremati a Lampedusa. Poi non ricordo più niente. Ricordo solo che dormì continuamente per 3 giorni, ci chiusero nel campo di Lampedusa e alla fine del viaggio, dopo aver preso confidenza con la morte più di una sorella, chiesi l’asilo. Ora sono un rifugiato. L’Italia ha ritenuto che io avessi diritto ad avere l’asilo politico, ma solo dopo essere riuscito ad arrivare sano e salvo alla fine del viaggio. Ora lavoro a nero in un campo agricolo. Ora sono qui in questo dormitorio per topi, mentre i miei sogni non mi fanno dormire. Il mio viaggio non ha più inizio o fine. Il mio viaggio è un incubo nella mia testa. Un tradimento della mia anima. Un lento morire. Senza meta.

Pubblicato su  Mythos di Luglio
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mercoledì 7 luglio 2010

Il segreto dei Bar


"Jimmy conosceva il segreto dei bar". Il cigolio delle porte era uno di questi. L'appicicaticcio alcolico dei tavoli e del bancone l'ingrediente immancabile. Un barista con barba incolta e camicia sbottonata. Una barista non più giovanissima che mostra le sue grazie ed il suo seno prosperoso ed esperto fra i suoi capelli dispersi che accarezzano il collo sinuoso in ciocche bagnate di sudore. Dentro un odore caldo di sigarette al mentolo e lozioni per capelli invecchiate. Le lozioni. Ma il segreto unico, il più sacro e genuino, l'indispensabile è il cliente. Forma postmoderna per identificare, distanziare, mercificare quella figura mistica e salvifica per l'umanità che è l'uomo da bar. Volti spigolosi e unici, attori del mondo che potrebbero riempire cinema. Storie mistiche e terrene, profani del quotidiano che si affollano nella cerimonia del bar, più col sangue che col corpo di Cristo, loro, che puliscono il sangue col sangue, e purificano il corpo con altri corpi. Fra i tavoli pesanti di gomiti ebbri, giornali sportivi, gazzette locali e carte da gioco, le età si perdono fra i profumi di rum e birra. E Jimmy, Jimmy conosceva il segreto dei bar, talmente bene che sulla porta del paradiso del bar "Toilette" era incorniciata in una targhetta quella frase sacra: "Jimmy conosceva il segreto dei bar". Era un ragazzetto strano per quel posto, o meglio, non che disdegnasse la compagnia e i vizi degli avventori, ma lo faceva a modo suo. Con i suoi baffi folti, seduto in fondo al solito tavolo. Arrivava si sedeva ordinava una media, tirava giù un bel sorso, si guardava intorno, prendeva il suo taccuino e iniziava a scrivere, ma cosi, con una naturalezza tale, come se stesse giocando a carte, scriveva, beveva, parlava con noi, scherzava, viveva il bar e scriveva. Chissà Jimmy, ora avrà scritto su un romanzo su quelle storie, su quei pazzi ubriaconi, sui vecchietti che leggevano la gazzetta sportiva, o sulle bevute al fondo. O forse chissà avrà usato tutto quel materiale per una di quelle cose moderne, materiale da blog.
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