"Consiglierebbe la carriera di scrittore?" mi chiese uno degli studenti.
"Stai cercando di dire amenità?" gli chiesi.
"No, no parlo seriamente. Consiglierebbe la carriera di scrittore?"
"È lo scrivere che sceglie te e non tu lo scrivere."

Charles Bukowski

lunedì 31 ottobre 2011

In paziente (pathein)


Avendone cura. Del tuo bicchiere mezzo vuoto servito.
Del calice su cui ti piegherai per piangere.
Per pregare. Per pagare e semmai pogare.
Io non avrò da ridire del pessimismo dei punti di vista.
Delle viste guidate. Dei punti premi. Dei conti in ordine.
Ho conosciuto qualcuno che ha meritato le mie virgole, le mie esclamazioni! i miei interrogativi?
"Virgolettato i miei pensieri" (e le infinite parentesi a perdersi nel nulla).
Non avevo parole, forse è questa la soluzione. Creando vuoti nella lingua.
Disimparando a parlare. Forse meglio. Impossibilitati a tradurre a parole.
Un vecchio computer che non supporta e non sopporta. Allora bippa.
Emette rumori. Pance sgonfie. Rutti affamati.
Meglio berlo quel bicchiere. Tossire di traverso.
Ingozzarsi d'aria e bollicine. Meglio annullare ogni indecisione.
Fra mezzo pieno e mezzo vuoto, mezzo bere.
Appena per ricordarsi il suo nome, il tuo, il  mio.
Il prezzo da pagare per una cerimonia impaziente.
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giovedì 13 ottobre 2011

Pieghe



hai aderito
hai adorato
hai odorato
hai adornato
hai deodorato
hai diradato
hai divorato
hai divorziato
hai divagato
hai divertito
hai invertito
hai riverito
hai rivestito
hai riversato
hai traversato
hai tramortito
hai tramutato
hai tramontato
hai travisato
hai tradito
hai tradotto
hai travolto
hai sconvolto
hai sconfitto
hai soffritto
hai soffiato
hai annaffiato
hai arraffato
hai ammassato
hai ammazzato
hai ammaliato
hai smagliato
hai scagliato
hai stagliato
hai studiato
hai sgonfiato
hai spogliato
hai sfogliato
hai svogliato
hai ammogliato
hai ammalato
hai acclarato
hai accaldato
hai accantonato
hai accapponato
hai accavallato
hai accompagnato
hai accoltellato
hai accontentato
hai accordato
hai ricordato
e poi dimenticato
sei stato assolto dall'avere
disciolto dal verbo


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domenica 9 ottobre 2011

Autunno


È  normale piangere, appena l'autunno bussa alla tua finestra. È un bussare timido ma costante. Seguito da boati e colpi di tosse. Non ti resta che piangere. Se solo non avessi da fare, dico. Se solo fossi solo, veramente, lì ad ascoltare i discorsi dell'autunno, che è una voce confidenziale, di quelle voci radiofoniche di notte lungo la strada, o dei racconti di un anziano parente. Devi piangere quando l'autunno bussa alle finestre. Non per tristezza né per gioia, si piange per poterci parlare con l'autunno, è la sua lingua e se taci, fai silenzio e resti solo, ma veramente, allora capisci che non ti resta che piangere, parlare con l'autunno vuol dire piangere, in quasi tutte le lingue, piangere è piovere, llorar è llover, pleurer è pleuvoir, rain è cry (e forse crain). Ogni uomo solo, ma veramente, dovrebbe aprirla la finestra e lasciare che l'autunno strabordi oltre le rive, dentro la sua stanza, ad impregnare le sue branchie dei suoi pianti, di quel dondolìo del mare, delle lontane avventure di quel vecchio marinaio che è l'autunno. Ora che non sei più solo, ma veramente, affogato dentro quell'autunno resterebbe da lanciarsi fuori, nell'autunno. Nuotare in quella burrasca che finalmente ha un volto, e dentro cui puoi finalmente affogare. È la stessa che ti porti dietro e ti porti dentro da sempre. Ma non puoi mica affogare in una burrasca che è dentro di te e allora per questo arriva l'autunno, per coccolarti fra le sue onde, per poter finalemente affogare dentro la tua stessa burrasca e piangere, piangere, piovere, piovere, piangere, piovere, piangere, piovere, piangere... Pescatore solitario, vecchio marinaio burbero che ci accogli fra le tue reti, che peschi solitudini, che getti via le lische delle ossessioni, le manìe di ogni patria, le nevrosi che fuggono da se stesse. Si rimane così.
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venerdì 7 ottobre 2011

Lapidiario


Dilapidare ricchezze. Lapidare ricchezze. Lapidi di ricchezze. Tutto viene sepolto da una pietra. Una qualunque. O quella definitiva. S’intende. E su ogni pietra edificherai una chiesa. La stessa che dilapiderai. La stessa che lapiderai. La stessa lapide di Pietro. Che è pietra e lapide. Si scaglia sul figlio. Dal padre. Levigata, scheggiata e colpevole. Ho sfogliato la tua faccia tra le mille pieghe del tempo. Dei tuoi ricordi. Che non sono tuoi più delle tue tasche e dei tuoi pensieri. Sei salito al tempio per ricevere ricovero. I templi non sorgono mai a piano terra, e nemmeno i tempi. I templi sono sempre illuminati al neon, in tutti i tempi. Cercavi le lettere alle tue parole. Quella pietra che ti scalfisce, leviga e indurisce. Ti sbriciola col tempo e col tempio e ti rende sabbia. Così libera nell’Oceano. Il significato di tutti i templi e di tutti i tempi è sempre stato in quella scheggia. Nell’arrugginito consumarsi, riprodursi, senescersi, obsolescersi, obliterarsi. Clicca la macchina. Lascia un dito mozzo, una carta ruvida, un leggero timbro ed un occhio di mascara. Tutti in quel mare che chiamiamo oceano, stagno o placenta. Respiriamo la sconfitta della nascita. Buttati al mondo in quel modo orribile e disgustoso. Marchiati a sangue dal sangue. È una castrazione per tutti e per tutte. Ogni ombelico è lì a testimoniare dinanzi a dio e alla sua pietra l’orribile mutilazione. Non c’è scampo per nessuno, siamo cacati. Potevamo tuffarci alla vita. Una piscina olimpica come inizio delle danze, un elegante modo per presentarsi ai parenti più stretti. Ma si sa, ha poca eleganza dio, abituato ai suoi modi rudi e spiccioli da vecchio contadino. Con la sua canottiera bianca sporca di sugo, e quella barba ripiena di terra. Neanche per suo figlio ha avuto riguardi. L’ha abbandonato appena nato, mentre in croce chiedeva il perché di quella paternità rifiutata. Potevamo essere molto più eleganti in un uovo, senza troppi traumi per nessuno. Ci sarebbe da adottare uno psicologo per ogni nascita, per quel trauma immane che non a caso siamo tutti costretti a rimuovere. Indicibile. Invincibile. Incivile. Incendiario. Cosa cercherai mai su quel tempio dorato che non hai nel tuo ombelico? Cosa avrà mai da dirti l’ultimo guru, l’ultima merce, l’ultimo contante racimolato, l’ultima ricchezza lapidata, lapidaria e ultima? Costretto a cercare un padre dietro ad ogni fantasma. Dietro al tuo armadio, sotto al tuo tavolo, in cucina, nel bagno, giù in cantina, nel nascondiglio pornografico, o su, più su, in cima a quel monte, in cima al tempo e al suo tempio, in mezzo alle tue tempie, lontano dai tuoi ricordi, da quel primo orribile e inesauribile, ad oggi che hai acquistato il tuo nuovo fantasma, celato da dio, costretto da un’idea, da un’immagine, da un’indagine di mercato, da un’ingegnere nucleare, dall’ultima moda in fatto di noia, e sempre su quel tempio hai timbrato il tuo scontrino fiscale, e non si sfugge, è fiscale, per sempre, in gioco per sempre del tuo vuoto voto in vita. Scalfiscila ancora, levigala, incendiala, induriscila fra i denti, aguzza ogni pietra fra le tue mani, fino a quando ogni sempre sarà finito, fino alla tua chiesa, alla tua lapide, alla tua lapidaria ricchezza.
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