L'imperialismo si espande anche e sopratutto attraverso il linguaggio. "Le parole sono importanti" diceva Moretti "chi parla male pensa male e vive male". Il linguaggio tutt'altro dall'essere un mero codice comunicativo contiene in se un universo simbolico e culturale, lo sanno bene i mediatori linguistici che non basta tradurre letteralmente qualcosa, bisogna essere in grado di comunicare tutto ciò che c'è dietro alle parole alle espressioni, il suo retroterra culturale. La globalizzazione capitalista quindi si espande nelle sue forme imperiali non solo attraverso il mercato, le guerre, gli stili di vita, ma anche e sopratutto attraverso la lingua, perchè modificare il linguaggio di una popolazione significa stravolgere pesantemente il suo universo simbolico e culturale, significa eliminare sfumature concettuali o immetterne di nuovi, significa rimodellare la descrizione del mondo secondo canoni nuovi. Canoni imposti dal paese dominante. In 1984 la Neolingua aveva la funzione di ristrutturare il pensiero umano secondo i canoni del SocIng, ma non solo, funzione fondamentale era rendere impossibile la creazione di pensieri eretici, per il solo motivo che erano impensabili in quanto indefinibili. "La parola libero esisteva ancora in Neolingua, ma poteva essere usata solo in frasi come "Questo cane è libero da pulci" oppure "Questo campo è libero da erbacce". Ma non poteva essere usata nell'antico significato di "politicamente libero" o "intellettualmente libero" dal momento che la libertà politica ed intellettuale non esisteva più, nemmeno come concetto, ed era quindi, di necessità, priva di una parola per esprimerla [...] La Neolingua era intesa non ad estendere, ma a diminuire le possibilità di pensiero; si veniva incontro a questo fine appunto, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole." La facilità e la noncuranza con cui in Italia, paese in cui pochi conoscono l'inglese, si usa sostituire termini presenti nel vocabolario con più accattivanti suoni anglofoni, la dice tutta sul pericolo non solo linguistico ma evidentemente culturale a cui si va incontro. "Trend negativo io non parlo cosi" diceva sempre il caro Moretti. Ed è con questa incuranza che in conferenze, dibattiti, seminari, assemblee, meeting, club, happy hour e incontri di team, vediamo esplodere una fluorescenza di termini che ci rendono più internescional: alle 10,30 è previsto un coffe break presso la hall del Bad and Breakfast in cui sarà possibile confrontarsi sul Know out dei policy maker del territorio. I manager devono tener conto delle esigenze degli stakeholder nel programmare il proprio business plan attraverso la conoscenza del feedback. Presso l'infopoint potrete rivolgervi in qualsiasi momento o chiamare al numero di Call center in cui una centralinista vi collegherà al server del computer libero. E potrei continuare per ore. All'inizio era solo Ok, poi a partire dalla caduta del muro un'invasione di parole ha attraversato il tacco, sostituendo e strozzando termini ancora troppo latini e tardo romantici per una new economy. La guerra delle parole è appena iniziata tocca a noi resistere, tocca a noi non perpetrare la morte dei termini. Non vorrei che questo appaia come un futile proclama nazionalista, so benissimo come la lingua nasce dall'intreccio culturale, ma l'appiattimento unipolare rende necessaria una strenua difesa. Ogni volta che vi troverete di fronte a inglesismi che vi affrontano, toccherà a voi scegliere quale termine usare, toccherà a voi usare le parole come spadaccini, solo a voi decidere fra coffe breack e pausa caffè, nonsotante il suo suono poco efficente ed italofannullone.
sabato 12 dicembre 2009
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