Dilapidare ricchezze. Lapidare ricchezze. Lapidi di ricchezze. Tutto viene sepolto da una pietra. Una qualunque. O quella definitiva. S’intende. E su ogni pietra edificherai una chiesa. La stessa che dilapiderai. La stessa che lapiderai. La stessa lapide di Pietro. Che è pietra e lapide. Si scaglia sul figlio. Dal padre. Levigata, scheggiata e colpevole. Ho sfogliato la tua faccia tra le mille pieghe del tempo. Dei tuoi ricordi. Che non sono tuoi più delle tue tasche e dei tuoi pensieri. Sei salito al tempio per ricevere ricovero. I templi non sorgono mai a piano terra, e nemmeno i tempi. I templi sono sempre illuminati al neon, in tutti i tempi. Cercavi le lettere alle tue parole. Quella pietra che ti scalfisce, leviga e indurisce. Ti sbriciola col tempo e col tempio e ti rende sabbia. Così libera nell’Oceano. Il significato di tutti i templi e di tutti i tempi è sempre stato in quella scheggia. Nell’arrugginito consumarsi, riprodursi, senescersi, obsolescersi, obliterarsi. Clicca la macchina. Lascia un dito mozzo, una carta ruvida, un leggero timbro ed un occhio di mascara. Tutti in quel mare che chiamiamo oceano, stagno o placenta. Respiriamo la sconfitta della nascita. Buttati al mondo in quel modo orribile e disgustoso. Marchiati a sangue dal sangue. È una castrazione per tutti e per tutte. Ogni ombelico è lì a testimoniare dinanzi a dio e alla sua pietra l’orribile mutilazione. Non c’è scampo per nessuno, siamo cacati. Potevamo tuffarci alla vita. Una piscina olimpica come inizio delle danze, un elegante modo per presentarsi ai parenti più stretti. Ma si sa, ha poca eleganza dio, abituato ai suoi modi rudi e spiccioli da vecchio contadino. Con la sua canottiera bianca sporca di sugo, e quella barba ripiena di terra. Neanche per suo figlio ha avuto riguardi. L’ha abbandonato appena nato, mentre in croce chiedeva il perché di quella paternità rifiutata. Potevamo essere molto più eleganti in un uovo, senza troppi traumi per nessuno. Ci sarebbe da adottare uno psicologo per ogni nascita, per quel trauma immane che non a caso siamo tutti costretti a rimuovere. Indicibile. Invincibile. Incivile. Incendiario. Cosa cercherai mai su quel tempio dorato che non hai nel tuo ombelico? Cosa avrà mai da dirti l’ultimo guru, l’ultima merce, l’ultimo contante racimolato, l’ultima ricchezza lapidata, lapidaria e ultima? Costretto a cercare un padre dietro ad ogni fantasma. Dietro al tuo armadio, sotto al tuo tavolo, in cucina, nel bagno, giù in cantina, nel nascondiglio pornografico, o su, più su, in cima a quel monte, in cima al tempo e al suo tempio, in mezzo alle tue tempie, lontano dai tuoi ricordi, da quel primo orribile e inesauribile, ad oggi che hai acquistato il tuo nuovo fantasma, celato da dio, costretto da un’idea, da un’immagine, da un’indagine di mercato, da un’ingegnere nucleare, dall’ultima moda in fatto di noia, e sempre su quel tempio hai timbrato il tuo scontrino fiscale, e non si sfugge, è fiscale, per sempre, in gioco per sempre del tuo vuoto voto in vita. Scalfiscila ancora, levigala, incendiala, induriscila fra i denti, aguzza ogni pietra fra le tue mani, fino a quando ogni sempre sarà finito, fino alla tua chiesa, alla tua lapide, alla tua lapidaria ricchezza.
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